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Anna Rita Borraccetti, intervistata da GIDP, fa una fotografia sull’ andamento nel mondo delle selezioni.

Anna Rita Borraccetti, intervistata da GIDP, fa una fotografia sull’ andamento nel mondo delle selezioni.
Anna Rita Borraccetti, Amministratore Unico Piessepi

Anna Rita Borraccetti è amministratore unico di Piessepi, società di consulenza che offre servizi nel campo delle risorse umane e dell’organizzazione aziendale. Borraccetti, laureata in economia, ha in particolare una verticalità nell’head hunting frutto di oltre vent’anni di esperienza nel settore delle selezioni.

Anna Rita, come potremmo spiegare il lavoro dell’head hunter?

L’Head Hunting, attività di colui che letteralmente “caccia le teste”, nasce in Svizzera negli anni 80’ e si diffonde inizialmente in Inghilterra. Questa figura riceveva l’incarico dalle aziende di cercare professionisti – manager di alto livello disposti a cambiare posizione lavorativa. Quando con diversi anni di ritardo la pratica si è diffusa anche in Italia si è limitata inizialmente a Milano e Roma, perché erano gli unici contesti ad ospitare realtà aziendali con due caratteristiche; da una parte modelli organizzativi uniformi per cui un professionista arrivato da un competitor potesse trovare contesto e mansioni simili nella nuova realtà, dall’altra un approccio culturale favorevole all’idea che cambiare azienda fosse un valore in termini di arricchimento sia per l’impresa che per il Lavoratore. Una rivoluzione rispetto al principio della fedeltà aziendale. Negli anni il lavoro dell’head hunter si è continuamente evoluto diventando sempre di più il sistema di ricerca e selezione più raffinato e affidabile, quello che si mette in atto ai massimi livelli e con metodologie e professionalità specifiche.

Qual è il vantaggio di affidarsi ad un professionista o a una società esterna per l’inserimento di profili nella propria azienda?

L’inserimento della figura giusta all’interno del proprio organico ha un valore inestimabile. Il sogno di ogni organizzazione è quello di creare meccanismi per cui le persone sono intercambiabili e le mansioni sono perfettamente definite, ma le aziende si reggono ancora sulle persone e sono le persone a fare la differenza. Un inserimento sbagliato è un danno per un’organizzazione e, guardandolo dall’altro lato, anche per il lavoratore. Dunque, se riteniamo che l’acquisizione di talenti sia fondamentale per le aziende, questo processo deve essere gestito da chi ha le giuste competenze e soprattutto la giusta seniority. Il cuore del lavoro di un head hunter sono le persone e ognuna di queste si porta dietro una sfera emotiva che va considerata, trattata con la massima attenzione e valutata rispetto a tutti i fattori in campo. Oltre alle competenze tecniche che un head hunter deve possedere, sottolineo sempre l’aspetto dell’esperienza. Un chirurgo che ha operato diecimila volte è più strutturato di un chirurgo al suo centesimo intervento, e lo stesso vale per un pilota con i voli o un marinaio con la navigazione. Aver lavorato con molte aziende di diverso settore e nazionalità, e nella Pubblica Amministrazione, e aver selezionato migliaia di profili aiuta a ponderare le aspettative e valutare anche aspetti nella fase di recruiting che non si imparano solo sui libri o nei master. Teoria e pratica, freschezza di pensiero ed esperienza devono stare assieme, infatti sono una grande sostenitrice del lavoro in team svolto da head hunter con seniority diverse.

Come sta andando il mercato delle selezioni in questo periodo?

Il mercato delle selezioni è ovviamente influenzato dall’andamento del mercato del lavoro, con la particolarità di avere a che fare con ruoli di medio-alto profilo. Dobbiamo dire che con la pandemia e il fenomeno delle grandi dimissioni le selezioni sono aumentate moltissimo nell’ultimo periodo. Per quanto riguarda il 2023 osserviamo maggior fermento in questo secondo semestre. Nel privato molte ricerche vengono attivate dalle società di consulenza con richieste di professionalità in grado di occuparsi dei criteri di sostenibilità con i parametri ESG, mentre le aziende cercano risorse in ambito operations, amministrazione, sales e IT. Anche il pubblico sta vivendo una fase interessante grazie al PNRR soprattutto per figure con competenze legali e di amministrazione, finanza e controllo. La grande novità però che stiamo osservando più che sulle mansioni è legata ai profili ricercati, o meglio ancora, alla loro seniority. Tanto che nel nostro settore si parla molto di ageism, ma questa parola sta assumendo un significato diverso.

Cos’è l’Ageism e come sta impattando nel settore della ricerca del personale?

Nelle aziende e nei luoghi di lavoro il paradigma della diversity & inclusion porta a vedere le differenze generazionali come un valore e a non discriminare sulla base dell’età. E questo approccio sta cambiando anche il lavoro dell’head hunter. La frase “lei è troppo qualificato per questo lavoro” in passato è diventata una sorta di icona, un ritornello per indicare che le aziende preferivano assumere giovani con poca esperienza e che figure senior rischiavano di rimanere fuori dal mercato del lavoro. Oggi invece stiamo assistendo a un cambiamento evidente e le persone con seniority sono tornate ad essere “appetibili” nelle selezioni. Questo è dovuto ad un fattore demografico e ad un fattore culturale. I giovani sono statisticamente meno di una volta, quindi i centomila dirigenti in Italia che ogni anno terminano i loro incarichi e sono liberi diventano una preziosa risorsa a cui attingere. Poi c’è un aspetto legato alle diverse aspettative di Z Generations e Millennials. Per i giovani il bilanciamento vita-lavoro conta più della carriera. Non significa che non siano bravi, significa che pongono un limite rispetto alla pervasività della professione nella vita privata. Quindi per molte posizioni chi si è formato con un’altra mentalità torna in gioco indipendentemente dall’età.

Le aziende sono davvero disposte ad investire su profili senior?

Non tutte ma in larga parte sta succedendo. Mentre una volta un curriculum con dieci esperienze lavorative spaventava perché la fedeltà aziendale era un valore fondativo per il datore di lavoro, oggi si lavora pe r mansioni. Anche un giovane, magari preferito nell’assunzione con l’idea di farlo crescere e legarlo all’azienda, prima o poi con buona probabilità vorrà cambiare contesto e mettersi alla prova da qualche altre parte. Se una persona decide di cambiare luogo di lavoro l’azienda ha capito che la cosa importante è riuscire a sostituirla in maniera efficace. E chi porta più esperienze può essere un valore aggiunto. Per settori come quello bancario o assicurativo era già in parte così, più che l’età contava il portfolio. In tutto questo il ruolo dell’head hunter si è evoluto, le tecniche si sono affinate. Siamo arrivati ad essere quasi dei mediatori culturali tra le aziende e i lavoratori, tra generazioni che hanno valori e aspettative diverse, tra luoghi del mondo visto che ormai ci confrontiamo con realtà sparse in ogni continente. Questo ci permette di avere una visione panoramica utile per affrontare temi come il remote working. All’estero ci sono multinazionali che prevedono il full remote work. E quando i giovani si presentano in azienda perché voglio lavorare in sede il capo li porta fuori a fine giornata per fare community. Non do un giudizio se sia giusto o sbagliato, ma è un fattore da tenere in considerazione anche quando faccio una selezione per l’Italia visto che il mercato del lavoro è globale. Un head hunter deve sempre aggiornarsi e migliorare perché il mondo del lavoro si evolve. Per quanto l’azienda sia grande e le procedure standardizzate, abbiamo a che fare con persone sia dal lato del lavoratore che su quello dell’organizzazione aziendale. E quindi le soluzioni dovranno sempre essere tailor made!

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